Come ho conosciuto Ninni Cassarà
Ogni pomeriggio, da una certa ora in poi, accompagnati dalle mamme, riempivano la stanza da pranzo buona col tavolo lungo stile impero e tante sedie, una frotta di ragazzine e ragazzini, pronti per le ripetizioni. Le mamme andavano via per le loro faccende: compere, passeggiate, un cinema, il parrucchiere. Sembra che qualcuna ne approfittasse per incontri non proprio ortodossi. Erano alunni di mia madre, maestra di scuola elementare, che continuava a casa le lezioni del mattino. Seguiva tutti con pazienza e dedizione totale, fino a sera tardi, quasi ora di cena. Io, in disparte, abbandonato nella mia stanza, mi annoiavo e per dispetto invece di ripassare la poesia o i fiumi e le città sulla cartina geografica, mi nutrivo di giornaletti di Topolino. Rubacchiavo in cucina pane e formaggio, aprivo una scatoletta di caponata Pensabene.
Crack! Crack! Crack! Crack!
La lama appuntita dell’apriscatole spaccava la latta lasciando frastagli affilati per ammonire le mie dita impertinenti. Odiavo tutta quella marmaglia che teneva lontana da me, mia madre; quella creatura, che diventava ogni giorno assolutamente irraggiungibile. Curavo con attenzione la mia ignoranza e perfezionavo il mio disamore per lo studio. Fu a quei tempi che imparai a coccolare la mia obesità ingozzandomi d’una orribile mescolanza preparata strizzando pomodori e pane secco bagnato con l’acqua e fette di cipolla e olio a fiumi. Sedavo una fame per l’impossibilità di saziare una sete d’amore.
Mi era vietato entrare nella stanza delle lezioni ma dovevo andare ad aprire la porta ad ogni scampanellata. Mia madre, concluso il suo rapido sonnellino pomeridiano, spuntava sorridente ed iniziava il suo lavoro. Io ero cacciata via con fermezza. Non c’era più neanche il gatto consolatorio che tenevamo nella vecchia casa vicino al porto. Ora in questa, moderna, ai margini della città, un gatto avrebbe rovinato le poltrone nuove e non era il caso.
Spiavo dal terrazzo della cucina quei visi ora imbronciati ora sorridenti, ora concentrati ora rivolti al lampadario dorato coi brindoli di cristallo sfaccettato, luccicanti. Capelli castani, capelli neri, nasi a patatina e nasi lunghi, sguardi sempre limpidi e occhi come gemme. Nel brusio, solo uno stava, sempre silenzioso e concentrato, a risolvere i suoi compiti; pantaloncini corti, magro, la pelle chiara e i capelli dorati a onde.
Occhi grandi e azzurri e ciglia lunghe e scure. Le bambine, con la biro in mano, chine sui quaderni e sui libri, lo guardavano adoranti, lui sembrava non accorgersene e le controllava con una cauta indifferenza.
La sera aprivo la porta di casa alle signore eleganti, che prima di portare via i loro preziosi marmocchi, ciarlavano tra loro e con mia madre stanca ma sorridente, fino a che anche l’ultima se ne era andata via, anche quella alta e coi riccioli biondi bloccati da forcine minuscole e multicolori, la madre di Ninni. Adesso dovevo apparecchiare, cucinare una cena veloce e silenziosa, per mio padre e mia madre, sparecchiare e andare a letto. I piatti e le pentole si ammucchiavano per la cameriera che l’indomani sarebbe venuta a fare la cucina; questo era quello che si doveva dire. In realtà strofinavo forchette e coltelli con un tappo di sughero e il vim in polvere, e pulivo tutto io stesso, nella cucina sempre in disordine e maleodorante.
Inverno dopo inverno , anno dopo anno.
Adesso frequentavo il liceo classico, accumulando bocciature e riparazioni a settembre, come era accaduto anche durante tutta la scuola media. Abbiamo fatto arricchire non so quanti professori e professoresse di latino e di greco, che non facevano altro che correggere gli errori di una versione una lezione dopo l’altra, senza mai spiegare nulla su come realmente imparare.
Poco mi lavavo e poco mi pettinavo, i miei vestiti erano ricavati da quelli di mio padre allargati e scoloriti dall’uso. Le mie scarpe, un paio all’anno, erano sempre di cuoio nero coi lacci sfilacciati. I libri di scuola usati e sbrindellati.
Laura un giorno mi presentò il suo ragazzo, biondo con gli occhi azzurri, bellissimo. Era il ragazzino che anni prima era venuto a lezione privata con gli altri a casa nostra, non mi riconobbe neppure, salutò e si portò via la mia amica dagli occhi neri e i capelli neri, la minuscola voglia come un neo, sul collo esile e candido. Alti e mano nella mano, si allontanarono velocemente.
Si sposarono ed ebbero una bimba; io, dopo la laurea , emigrai in una città del nord, per insegnare in un liceo scientifico. Solo.
Spararono a quel bambino biondo e alla sua scorta in macchina sotto casa, aveva sgarrato qualcosa con la gentile mafia di quei tempi: il commissario Cassarà era da eliminare. Sentii la notizia alla radio una sera dal cielo stellato in un campeggio vicino Barcellona. Sono passati ancora tanti anni e io sento ancora Laura urlare e i figli piangere. Ancora un altro nodo di una corda bloccata ci stringe la gola: una garrota senza fine e senza tempo.
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